• default style
  • blue style
  • green style
  • red style
  • orange style
Venerdì 29 Mar 2024
You are here: Home Poesie d'Autore Alighieri, Dante Dante Alighieri: 'Inferno, Canto XXVI: Godi, Fiorenza, poi che se' sí grande'
  • Increase font size
  • Default font size
  • Decrease font size

Dante Alighieri: 'Inferno, Canto XXVI: Godi, Fiorenza, poi che se' sí grande'

Stampa PDF
Dante Alighieri

Inferno, Canto XXVI: Godi, Fiorenza, poi che se' sí grande



Godi, Fiorenza, poi che se' sí grande,
che per mare e per terra batti l'ali,
e per lo 'nferno tuo nome si spande!
     Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
e tu in grande orranza non ne sali.
     Ma se presso al mattin del ver si sogna,
tu sentirai, di qua da picciol tempo,
di quel che Prato, non ch'altri, t'agogna;
     e se già fosse, non saria per tempo:
cosí foss'ei, da che pur esser dèe!
ché più mi graverà, com più m'attempo.
     Noi ci partimmo, e su per le scalee
che n'avean fatte i borni a scender pria,
rimontò il duca mio e trasse mee;
     e proseguendo la solinga via,
tra le schegge e tra' rocchi de lo scoglio
lo piè senza la man non si spedia.
     Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch'io vidi;
e più lo 'ngegno affreno ch'i' non soglio,
     perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m'ha dato 'l ben, ch'io stesso noi m'invidi.
     Quante il villan ch'al poggio si riposa,
nel tempo che colui che 'l mondo schiara
la faccia sua a noi tien meno ascosa,
     come la mosca cede a la zanzara,
vede lucciole giú per la vallea,
forse colà dov'e' vendemmia e ara:
     di tante fiamme tutta risplendea
l'ottava bolgia, si com'io m'accorsi
tosto che fui là 've 'l fondo parea.
     E qual colui che si vengiò con li orsi
vide 'l carro d'Elia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levorsi,
     che nol potea sí con li occhi seguire,
ch'el vedesse altro che la fiamma sola,
si come nuvoletta, in su salire;
     tal si move ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra il furto,
e ogni fiamma un peccatore invola.
     Io stava sovra 'l ponte a veder surto,
sì che s'io non avessi un ronchion preso,
caduto sarei giù senz'esser urto.
     E 'l duca, che mi vide tanto atteso,
disse: «Dentro dai fuochi son li spirti;
ciascun si fascia di quel ch'elli è inceso».
     «Maestro mio,» rispos'io «per udirti
son io più certo; ma già m'era avviso
che così fosse, e già voleva dirti:
     chi è in quel foco che vien si diviso
di sopra, che par surger de la pira
dov'Eteòcle col fratei fu miso?»
     Rispose a me: «Là dentro si martira
Ulisse e Diomede, e così insieme
a la vendetta vanno come a l'ira;
     e dentro da la lor fiamma si geme
l'agguato del caval che fe' la porta
onde uscì de' Romani il gentil seme.
     Piangevisi entro l'arte per che, morta,
Deidamia ancor si duol d'Achille,
e del Palladio pena vi si porta».
     «S'ei posson dentro da quelle faville
parlar,» diss'io «maestro, assai ten priego
e riprego, che il priego vaglia mille,
     che non mi facci de l'attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna:
vedi che del disio ver lei mi piego!»
     Ed elli a me: «La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l'accetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna.
     Lascia parlare a me, ch'i' ho concetto
ciò che tu vuoi; ch'ei sarebbero schivi,
perché fur greci, forse del tuo detto».
     Poi che la fiamma fu venuta quivi,
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi:
     «O voi che siete due dentro ad un foco,
s'io meritai di voi, mentre ch'io vissi,
s'io meritai di voi assai o poco
     quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l'un di voi dica
dove per lui perduto a morir gissi».
     Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando
pur come quella cui vento affatica;
     indi la cima qua e lá menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori, e disse: «Quando
     mi diparti' da Circe, che sottrasse
me più d'un anno lá presso a Gaeta,
prima che si Enea la nomasse,
     né dolcezza di figlio, né la pièta
del vecchio padre, né 'l debito amore
lo qual dovea Penelope far lieta,
     vincer potero dentro a me l'ardore
ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto,
e de li vizi umani e del valore;
     ma misi me per l'alto mare aperto
sol con un legno, e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
     L'un lito e l'altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l'isola de' Sardi,
5e l'altre che quel mare intorno bagna.
     Io e' compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta,
dov'Ercule segnò li suoi riguardi
     acciò che l'uom più oltre non si metta:
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l'altra già m'avea lasciata Setta.
    ' O frati, ' dissi ' che per cento milia
perigli siete giunti a l'occidente,
a questa tanto picciola vigilia
     de'nostri sensi ch'è del rimanente,
non vogliate negar l'esperienza,
di retro al sol, del mondo senza gente.
     Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza '.
     Li miei compagni fec'io si aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
     e volta nostra poppa nel mattino,
dei remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
     Tutte le stelle già de l'altro polo
vedea la notte, e 'l nostro tanto basso,
che non surgea fuor del marin suolo.
     Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo,
     quando n'apparve una montagna, bruna
per la distanza; e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.
     Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque,
e percosse del legno il primo canto:
     tre volte il fe' girar con tutte l'acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com' altrui piacque,
     infin che 'l mar fu sopra noi richiuso».


(dal poema 'Divina Commedia', 1304-1321)


[ FONTE ]


Dante Alighieri, o Alighiero, battezzato Durante di Alighiero degli Alighieri e anche noto con il solo nome Dante (Firenze, tra il 21 maggio e il 21 giugno 1265 – Ravenna, notte tra il 13 e il 14 settembre 1321)

[ Poeta italiano. Considerato il padre della lingua italiana, è universalmente noto per la "Divina Commedia ", espressione della cultura medievale. Spaziò all'interno dello scibile umano, segnando profondamente la letteratura italiana e la cultura occidentale, tanto da essere soprannominato il "Sommo Poeta". ]



[ CLICCA QUI PER VEDERE UNA SCENA DEL FILM 'MAMMA ROMA', 1962, CHE CITA I PRIMI VERSI DI QUESTO CANTO ]

Questo sito NON utilizza alcun cookie di profilazione proprio. Sono invece utilizzati cookie di terze parti legati alla presenza dei “social plugin” ed attribuibili a Facebook, Twitter, Pinterest, Google, etc. Se accedi ad un qualunque elemento sottostante o chiudi questo banner, acconsenti all'uso dei cookie. Se vuoi saperne di più sull’utilizzo dei cookie, in genere e nel sito e, sapere come disabilitarne l’uso, leggi l'Informativa sull’uso dei Cookie. Informativa Privacy e uso Cookie.

Accetto i Cookie da questo sito.

EU Cookie Information