Stefano D'Arrigo: 'In una lingua che non so più dire'
Stefano D'Arrigo
In una lingua che non so più dire
Nessuno più mi chiama in una lingua
che mia madre fa bionda, azzurra e sveva,
dal Nord al seguito di Federico,
o ai miei occhi nera e appassita in pugno
come oliva che è reliquia e ruga.
O in una lingua dove avanza, oscilla
col suo passo di danza che si cuoce
al fuoco della gioventù per sfida,
sposata a forma d'anfora, a quartara.
O in una lingua che alla pece affida
l'orma sua, l'inoltra a sera nell'estate,
in un basso alitare la decanta:
è movenza d'Aragona e Castiglia,
sillaba è cannadindia, stormire.
O in una lingua che le pone in capo
una corona, un cercine di piume,
un nido di pensieri in cima in cima.
O in quella lingua che la mormora
sul fiume ventilato di papiri,
su una foglia o sul palmo della mano.
O in una lingua che risale in sonno
coi primi venti precoci d'Africa,
che nel suo cuore albeggia, in sabbia e sale,
nel verso tenebroso della quaglia.
O in una lingua che non so più dire.
(da 'Codice siciliano', Scheiwiller 1957)
[ FONTE ]
Fortunato Stefano D'Arrigo (Alì Terme, 15 ottobre 1919 – Roma, 2 maggio 1992)
[ Poeta, scrittore e critico d'arte italiano. È conosciuto soprattutto per il romanzo "Horcynus Orca ", caso letterario del 1975, cui seguì nel 1985 "Cima delle nobildonne ". La sua unica raccolta di poesie è "Codice siciliano ", del 1957: in essa rievoca da Roma la Sicilia della sua infanzia e gioventù. ]